17.06.07
secolo xix L'ombra del G8 incombe sul futuro capo della Polizia
Secolo XIX
L'ombra del G8 incombe sul futuro capo della Polizia
roberto onofrio
Non si sa, per ora, se un filo rosso leghi la «macelleria messicana alla
Diaz», testimoniata nel processo sul G8 da Michelangelo Fournier,
responsabile del Nucleo sperimentale antisommossa, ai «vendicatori della
notte» e ai «cinque dell'Avemaria che picchiavano i terroristi detenuti
nel Reparto mobile di Padova», di cui parla il superpoliziotto Salvatore
Genova, rivelando al Secolo XIX retroscena clamorosi del periodo in cui
faceva parte del gruppo d'azione composto da Nocs e Ucigos che liberarono
il generale Dozier.
Certo, entrambi gli episodi lasciano pensare con inquietudine che possa
esistere, all'interno della Polizia di Stato, una sorta di apparato
parallelo, chissà quanto esteso e ramificato, che sembra capace di agire
in modo violento e gratuito e, soprattutto, al di sopra della legge. Una
specie di squadra speciale, pronta ad essere impiegata in casi
particolari, magari mescolata insieme ad altri Reparti, come può essere
avvenuto alla scuola Diaz. Oppure in formazioni più snelle, finalizzate a
operare con incursioni e interventi specifici, come a Padova.
Certo, c'è una strana assonanza e una scelta di tempo quantomeno singolare
tra la testimonianza resa al processo G8 da Fournier e le rivelazioni di
Salvatore Genova. Fournier e Genova sono due poliziotti che vantano grande
esperienza investigativa e una meticolosa conoscenza dei meccanismi che
regolano un apparato delicato e complesso come quello della Polizia. Il
fatto che abbiano deciso, quasi all'unisono, pur partendo da presupposti e
situazioni diverse e collocate in periodi di tempo lontani (anche se
Salvatore Genova, a un certo punto, affonda le sue accuse anche sulla
gestione strategica del G8), tradisce senza dubbio uno stato di profondo
malessere che deve attraversare, da qualche anno, par di capire, alcuni
strati della Polizia. È uno stato d'animo che, se effettivamente diffuso,
andrebbe affrontato, soprattutto nel momento in cui la questione
sicurezza, in Italia, è diventata una delle emergenze più cruciali. Ma
riesce sinceramente difficile immaginare che un uno-due così incisivo e
apparentemente improvviso possa rientrare nel novero dell'estemporaneità,
proprio perché giunge da persone che hanno avuto e hanno livelli di
responsabilità che non permettono scatti di nervi.
Dunque? Forse non è del tutto casuale che l'esternazione di questi
malesseri giunga in un momento cruciale per i vertici della Polizia. Non è
un mistero, infatti, che il mandato del Capo, Gianni De Gennaro, stia per
scadere tanto che, fino a ieri, si considerava scontato pure il nome che
l'avrebbe avvicendato: Antonio Manganelli, attuale vicecapo vicario, da
sempre vicinissimo a De Gennaro. L'arrivo di Manganelli sarebbe un segnale
di forte continuità con la gestione in corso. Ma su De Gennaro, dentro
l'Unione esistono pareri discordi. Si sa che Rifondazione, Verdi,
Comunisti italiani e uno spicchio della Margherita non lo amano e i fatti
del G8 di Genova, compreso il mistero dell'irruzione alla Diaz, hanno
acuito i tentativi di destituzione. Del resto, la stessa possibile
deposizione di De Gennaro al processo è diventata, nel tempo, un rompicapo
paradossale, con i pm che hanno rinunciato a richiederla dopo averla
sollecitata.
Il G8 di Genova, dunque, sembra essere ancora la madre di tutte le
tensioni che pervadono la Polizia e ora rischia di influenzare e
determinare anche la nomina del prossimo numero uno da parte del governo.
Non a caso, nel giorno in cui Fournier solleva il caso della Diaz, spunta
a Roma l'indiscrezione che Marcello Fulvi, attuale questore della
capitale, sia diventato il potenziale successore di De Gennaro. Fulvi, già
questore di Bologna, sarebbe una soluzione gradita dal premier e potrebbe
"sparigliare" le previsioni della vigilia. Ma l'imbarazzo più grande che
va chiarito, perché l'immagine della Polizia non torni ad offuscarsi
pesantemente, come accadde nel luglio 2001, sta nelle parole di Fournier e
Genova, più pesanti di sanpietrini.
«Torture ai brigatisti ben prima della Diaz»
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta: «Metodi già usati»
GENOVA. Lo sfogo del superpoliziotto Salvatore Genova è inarrestabile: «Ci
sono stati errori incredibili e violenza gratuita al G8, ma dai vertici
della polizia non è mai stata presa in considerazione l'ipotesi di
un'inchiesta interna, figuriamoci di quella parlamentare, sebbene le
defaillance fossero state segnalate in modo circoscritto dai poliziotti
stessi. E ci furono torture e pestaggi inutili anche nel periodo della
lotta al terrorismo, nei confronti di alcuni brigatisti arrestati. Ma
allora, come oggi, nonostante ripetute sollecitazioni a fare chiarezza,
lettere protocollate e incontri riservatissimi, ci si è ben guardati
dall'avviare i doverosi accertamenti. Si è preferito, in base a logiche di
potere, lasciare che l'opinione pubblica rimanesse nell'incertezza, con il
risultato di delegittimare tutto il Corpo».
Sul tavolo della sua scrivania ci sono i carteggi degli ultimi quindici
anni con l'ex capo della polizia, Fernando Masone, e con l'attuale numero
uno, Gianni De Gennaro. Informative «personali», «strettamente riservate»
nelle quali Salvatore Genova - che nel gennaio del 1982 liberò a Padova il
generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse -
chiede l'istituzione di Commissioni, l'acquisizione di documenti e
l'interrogazione di testimoni. Vuole che venga fatta luce su una delle
pagine più oscure nella storia della lotta all'eversione. Ovvero: le
torture alle quali almeno cinque brigatisti vennero sottoposti nella sede
del Reparto mobile di Padova. Un episodio per il quale lo stesso Genova è
stato indagato (mai processato, poiché nel frattempo era stato eletto alla
Camera, ndr) e che in primo grado portò il tribunale della città veneta a
profilare l'esistenza «d'una struttura gestita dalle più alte gerarchie
che contemplava l'impiego di metodi violentissimi».
«L'irruzione alla scuola Diaz e l'oscurantismo di cui si è tornati a
parlare negli ultimi giorni - dice ora Genova - hanno molti elementi in
comune con i fatti di allora. Dimostrano che nella storia d'Italia, nei
casi in cui più gravemente la polizia s'è macchiata di aggressioni
"politiche" ad opera di gruppi molto ristretti, si è aggirata la strada
più coerente, quella dell'inchiesta amministrativa. E il risultato è il
malessere diffuso di cui leggiamo ogni giorno». Non arrivano a caso, le
parole di Genova, ma sono legate a due procedimenti giudiziari che
accomunano, non solo nella suggestione, gli anni '80 al post G8. È cronaca
recentissima la deposizione-choc di Michelangelo Fournier, uno dei
funzionari (oggi imputato) che guidò il blitz alla Diaz la notte fra il 21
e il 22 luglio 2001: «Ho visto scene da macelleria messicana - ha ribadito
ai giudici - la situazione era completamente fuori controllo».
Salvatore Genova di quella storia è stato testimone indiretto, in questi
giorni ha avuto contatti con i magistrati che sostengono l'accusa. Poco
dopo la conclusione del vertice, scrisse una dettagliata relazione a Roma
sulla disastrosa gestione dell'ordine pubblico, chiedendo di approfondire
la materia ma senza mai ricevere risposta.
Di pari passo agli "squarci" sul G8, la segnalazione del responsabile del
Sisde, Franco Gabrielli, nell'analisi presentata al comitato parlamentare
di controllo sui servizi segreti. Il capo degli 007, nel paventare una
saldatura fra vecchie e nuove leve dell'estremismo, s'è detto preoccupato
per l'imminente scarcerazione di Cesare Di Lenardo, "irriducibile"
arrestato per il sequestro Dozier e che con la sua denuncia fece alzare il
velo sulle torture.
«La coincidenza - spiega il superpoliziotto Genova - mi ha spinto a
espormi. Sono alla soglia della pensione, posso permettermi dopo
trent'anni di servizio di svelare alcuni dei mali profondi della polizia,
quelli che a volte hanno inciso profondamente sull'opinione pubblica,
delegittimando la dedizione di migliaia di operatori che ogni giorno sono
sulla strada».
Il racconto inizia dal G8, dalle ore che hanno preceduto il blitz alla
Diaz. «Con poche centinaia di uomini - ricorda Genova - dovevamo
fronteggiare in stazione il deflusso di oltre ventimila manifestanti.
Improvvisamente il supporto del Reparto Mobile, fondamentale, venne meno
perché furono dirottati altrove, in vista dell'irruzione. Siamo rimasti
praticamente "nudi". Potevano massacrarci. Eppure il confronto è stato
gestito senza drammi, dialogando con i dimostranti. Nel frattempo,
ascoltavamo via radio quello che si stava preparando altrove e veniva da
rabbrividire, con funzionari arrivati da fuori che non conoscevano
minimamente la città e dovevano gestire situazioni delicatissime. Abbiamo
telefonato decine di volte alla centrale operativa della questura -
continua il poliziotto - dicendo che Brignole poteva trasformarsi in una
mattanza. Abbiamo dovuto spegnere le televisioni che facevano rimbalzare
le immagini dei pestaggi nella scuola, per non infiammare gli animi.
Ebbene, in quel contesto, i superiori ci hanno lasciato in cinquanta,
davanti a ventimila. E io mi sono chiesto chi fossero realmente i
"nemici", gli avversari, se forse non stessero dalla nostra stessa parte».
Le stesse considerazioni, in un dettagliato resoconto scritto, sono sul
tavolo di almeno tre altissimi funzionari romani, che si sono ben guardati
dall'approfondire la vicenda. Come mai nessuno, nonostante le ultime
lettere risalgano al 2005, ha voluto indagare sulle torture?
«Nei primi anni '80 esistevano due gruppi - ricorda Genova - di cui tutti
sapevano: "I vendicatori della notte" e "I cinque dell'Ave Maria". I primi
operavano nella caserma di Padova, dov'erano detenuti i brigatisti fermati
per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c'erano Antonio Savasta, Emilia
Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». E denuncia: «Succedeva
esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli
occhi bendati, com'era scritto persino su un ordine di servizio, e poi
erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta,
presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: "Ma
perché continuano a torturarci, che stiamo collaborando?" (La sua
"dissociazione" permise centinaia di arresti, ndr). Le violenze avvenivano
di notte, naturalmente, e poi è stato facile confondere le acque mandando
sotto processo le persone sbagliate. Le stesse che ancora oggi, pur
assolte, continuano a ricevere minacce. E allora: perché per quasi
vent'anni, a dispetto delle reiterate sollecitazioni, non si è mai voluta
affrontare sul serio quella pagina?».
Il discorso è più ampio e inquietante quando entrano in gioco "I cinque
dell'Ave Maria". Rievoca Genova: «Ovunque era nota l'esistenza della
"squadretta torturatori" che si muoveva in più zone d'Italia, poiché altri
Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos
di Roma) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato
difficile individuarne nomi, cognomi e "mandanti" a quei tempi. Ecco, il
rimpallo di responsabilità, le "amnesie" che caratterizzano le deposizioni
sul G8 e la scuola Diaz dimostrano che purtroppo il metodo, per alcuni
gruppi ristretti ma potenti, non è cambiato».
MATTEO INDICE
Fournier "pentito", De Gennaro più debole
il retroscena
Il capo della polizia non vuole andarsene, ma dopo le parole del
funzionario sulla Diaz, le dimissioni sarebbero inevitabili
16/06/2007
Genova. L'Italia di mezzo (anche se adesso sta più di qua, dalla parte
della maggioranza, che di là) dice la sua con il leader Marco Follini:
«Una commissione d'inchiesta per i fatti del G8 è inutile, la vicenda è
ormai alle spalle, esistono altri strumenti per fare chiarezza». Che cosa
c'entrino le dichiarazioni genovesi di Follini con la grande partita che
si sta giocando dopo le clamorose e impressionanti dichiarazioni del
vicequestore Michelangelo Fournier («la Diaz era una macelleria
messicana») è presto detto. La sinistra radicale (ma anche gran parte di
quella più moderata) non ha la forza numerica, in Parlamento, per imporre
la Commissione. La chiede ormai da sei anni, ma non ce la fa. Si sfila il
ministro della Giustizia, Clemente Mastella («non vorrei che dopo il caso
Speciale qualcuno pensasse di allargare gli orizzonti»), si sfila il
collega delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro. Insomma: rimane una
pattuglia, pur numerosa, di spiriti indignati, che insistono
ossessivamente su quella richiesta. Che, a dire il vero, era pure nelle
pieghe del programma dell'Unione. Ma la commissione non si fa e non si
farà.
Così la partita si sposta. Si sposta su chi è considerato dagli esegeti
più puri del pensiero no global tra i responsabili del caos alla Diaz. Il
capo della polizia, Gianni De Gennaro. Nominato da un governo di
centrosinistra, riconfermato da Berlusconi e ancora da Prodi. Inossidabile
ai cambiamenti di maggioranza, De Gennaro non pare intenzionato a gettare
la spugna. E dire che di blandizie, negli ultimi tempi, gliene sono state
riservate molte, come ha anticipato il Secolo XIX nei giorni scorsi. Un
posto da vicepresidente di Finmeccanica. Lo scranno di presidente
dell'Unire, quello delle corse dei cavalli. Rispedite al mittente. Ancora:
i vertici del Cesis, l'organismo che coordina le attività di tutta
l'intelligence. Niente da fare: De Gennaro non ne vuol sapere di fare il
parafulmine prima della riforma dei Servizi.
Insomma: una delicata ragnatela di mosse si è inceppata. Perché la testa
di De Gennaro era stata "promessa" in qualche modo alla sinistra radicale,
in cambio di modalità molto soft per la sua uscita di scena. Lui, però,
non ci sta. E questo complica di molto le cose a chi sperava di risolvere
la questione nel modo più indolore possibile.
Così affiora nella Capitale, nel cuore del ministero dell'Interno, il
sospetto che le dichiarazioni di Fournier possano addirittura essere
funzionali a questo disegno. «In pochi credono - spiega una fonte al
Secolo XIX - che il tardivo esame di coscienza del vicequestore sia solo
frutto di un'elaborazione interiore. In molti pensano che esista invece un
suggeritore occulto, che voglia mettere De Gennaro alle corde e rendere
improcrastinabile il suo avvicendamento». Questa la situazione, mentre si
avvicina il consiglio di amministrazione della polizia che dovrebbe
definire i "movimenti" dei funzionari. Appuntamento periodico nel quale si
decidono i destini dei vertici locali della polizia, rimandato a dopo
quest'ultima tornata elettorale. Ma le polemiche sulle dichiarazioni di
Fournier non si fermano. E a sorpresa interviene, con i toni forti tipici
dell'uomo, l'avvocato difensore del vicequestore, Silvio Romanelli.
«Alcuni sindacati di polizia - spiega - hanno accusato Fournier di
omissione di atti d'ufficio in quella situazione. Io rispondo: cosa doveva
fare? Lasciar perdere una ragazza gravemente ferita e rincorrere i
picchiatori per identificarli?». Stoccate anche per Vittorio Agnoletto e
Luca Casarini: «Agnoletto e Casarini sono i due miracolati del G8 e devono
fare la loro parte. Ma ci rendiamo conto che a Rostock ci sono stati, di
recente, mille feriti? Ci rendiamo conto che al G7 di Napoli ci furono
scontri forse ancora più violenti che a Genova, ma visto che c'era un
altro governo se ne parlò molto meno?». Ancora polemiche: «Tra i
certificati della Diaz, su 43 refertati, ce n'erano solo 5 o 6 davvero
gravi. E' inaccettabile lo stesso, lo capisco, una tale violenza non può
essere concessa alle forze dell'ordine. Ma non ingigantiamo le cose: fu
un'azione di 4-5 minuti in tutto, sgangherata e male diretta, in cui
qualcuno ha perso la testa». Ha dubbi, Romanelli, anche su quel che è
accaduto dopo. «Improvvisamente, i 43 feriti aumentano di numero, quasi
una trentina in più. All'improvviso, dicono tutti concordemente di esser
stati picchiati da poliziotti con la cintura nera, quelli del nucleo
antisommossa. Sapete qual è la mia opinione? Sanno benissimo che se non
addebitassero la responsabilità dei loro pestaggi a chi è stato rinviato a
giudizio, non vedrebbero un euro di risarcimento».
Il capogruppo di Sinistra Europea-Prc nel consiglio comunale di Genova,
Antonio Bruno, propone con una lettera aperta ai segretari di partito
dell'Unione di «trovare un momento per incontrare le vittime delle
mattanze del G8 e per discutere insieme come rilanciare l'immagine di
Genova, che in tutto il pianeta è la città famosa per le tragiche
"perquisizioni all'italiana"».
marco menduni
Casarini: «successe di tuttoil funzionario ha detto la verità»
il processo del g8
GENOVA. «Quello che ha detto Michelangelo Fournier è la pura verità: anzi
è poca cosa rispetto a quanto è successo realmente in quei due giorni a
Genova». Luca Casarini, leader dei Disobbedienti, ha testimoniato per
quasi tre ore, ieri mattina, al processo a carico di 25 no global accusati
di devastazione e saccheggio durante il G8 del 2001. «E' pazzesco che
questi ragazzi debbano rispondere di saccheggio e devastazione, reati non
prescrivibili, mentre i poliziotti che hanno massacrato i manifestanti,
possano vedere cancellato il reato di cui sono accusati - ha commentato
Casarini all'uscita dall'aula - Ho saputo soltanto nei giorni scorsi che
io sono ancora indagato per i fatti del G8. I reati che mi vengono
contestati sono gravissimi: alcuni prevedono addirittura l'ergastolo. Sono
accusato di terrorismo, di istigazione alla disobbedienza, di
devastazione. Dunque, io rischio il carcere a vita. E chi quel giorno ha
messo in atto violenze e torture nei confronti di decine e decine di
ragazzi inermi venuti a Genova soltanto per partecipare a un corteo, non
rischia più nulla perchè i loro reati saranno cancellati. Nel frattempo, i
loro comandanti sono stati promossi a ruoli ancora più importanti».
All'inizio dell'udienza, il presidente del tribunale ha chiesto a
Casarini, visto che è tuttora indagato, se volesse avvalersi della facoltà
di non rispondere, ma lui ha preferito testimoniare.
Gli è stato chiesto il significato della "Dichiarazione di guerra ai
potenti della terra" fatta il 26 maggio del 2001, due mesi prima del
vertice G8. «Era solo una metafora - ha spiegato il leader dei
Disobbedienti - per esprimere il nostro dissenso dalla zona rossa e
dall'utilizzo dell'esercito». Proprio per questa «dichiarazione di
guerra», Luca Casarini venne indagato dalla procura di Genova per
istigazione e associazione a delinquere. Reati per i quali, il
procedimento a suo carico è stato archiviato dal gip, su richiesta degli
stessi pm, Anna Canepa e Andrea Canciani. I magistrati hanno motivato la
loro richiesta sostenendo che quella dichiarazione non può essere
interpretata come «antecedente causale» degli atti di devastazione e
saccheggio verificatisi poi a Genova. Ora però Casarini deve ancora
rispondere di nuove accuse per altri fatti del G8 genovese, rilevati dalla
procura di Cosenza e inviati per competenza ai magistrati di Genova.
Elisabetta Vassallo