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15.07.12

Repubblica Nazionale G8, la condanna smisurata

MIGUEL GOTOR

FRANCESCO Puglisi, operaio, 14 anni. Vincenzo Vecchi, muratore, 12 anni e
6 mesi. Marina Cugnaschi, assistente sociale, 11 anni e 6 mesi. Alberto
Funaro, infermiere, 10 anni. Ines Maresca, educatrice, 6 anni e 6 mesi.
Ricordiamoli questi nomi perché sono stati condannati in via definitiva
per «devastazione e saccheggio» ed entreranno in carcere per scontare la
loro pena.Undici anni fa parteciparono agli scontri che misero a ferro e
fuoco Genova durante il G8 ma oggi sono persone che hanno gettato quel
passato alle spalle e hanno un lavoro, una famiglia, dei figli. La
condanna di quegli episodi di vera e propria guerriglia urbana deve
rimanere ferma, non solo per la gravità dei fatti in sé, ma anche perché
quella violenza ebbe l’effetto di prosciugare le ragioni politiche e le
rivendicazioni dell’intero movimento no-global. Su questo punto non ci può
essere nessuna ambiguità. Ma questa condanna non può essere disgiunta da
una riflessione critica sulla sentenza della Cassazione dell’altro ieri.
Sia chiaro, quindi: non sono in discussione i fatti e le responsabilità
degli imputati, ma soltanto l’entità delle condanne.
Anzitutto colpisce la sproporzione della pena. Basti pensare che durante
gli anni di piombo, grazie alla legislazione emergenziale sui pentiti, ci
sono stati autori di omicidi condannati a pene detentive molto inferiori a
queste, per non parlare di chi si è reso protagonista di rapine a mano
armata con finalità terroristiche o del reato di associazione mafiosa. La
pena deve avere certamente una funzione riparatoria, ma anche un valore
rieducativo come la stessa Costituzione ricorda e, in questa circostanza,
entrambi gli obiettivi sembrano traditi. Nel primo caso, perché la
sentenza arriva undici anni dopo i fatti ed è priva di qualsiasi valore
retributivo per le vittime di allora; nel secondo caso, poiché gli
imputati sono ormai altre persone prive di qualunque pericolosità sociale.
Una pena che non è graduata sulle condizioni presenti dell’individuo che
la subisce sarà pure corretta sul piano del diritto positivo, ma rischia
di essere percepita dalla coscienza sociale come un’ingiustizia.
In secondo luogo, la condanna ha assunto un valore esemplare che deriva
dall’applicazione del reato di devastazione e di saccheggio, più adatti a
una guerra e a degli eserciti schierati che non a degli scontri di piazza
in un Paese democratico. Non a caso questo reato è stato ereditato dalla
legislazione fascista e l’applicazione del buon senso avrebbe portato a
una maggiore flessibilità in grado di comminare pene comunque gravi, ma
più commisurate all’effettiva dimensione
dei reati commessi e al tempo trascorso
dai fatti. Si ha piuttosto l’impressione di un uso astratto e simbolico
della giustizia che ha voluto caricare sulle spalle di queste cinque
persone, individuate tra le centinaia, se non le migliaia che si resero
protagoniste delle violenze, tutto il peso e la responsabilità di quanto è
avvenuto a Genova in quei giorni. C’è infatti un divario troppo grande fra
la quantità di persone sfuggite a ogni sanzione e l’elevatezza della pena
attribuita a questo gruppo di condannati, che li fanno apparire come il
classico capro espiatorio. Da tale evidente sperequazione scaturisce
l’ideologia dell’esemplarità che contrasta con l’etica e i doveri di un
diritto mite, capace di confrontarsi con «i casi concreti della vita» e di
non ridurre i giudici a «bocche della legge».
Infine, bisogna considerare che la sentenza arriva pochi giorni dopo
l’assoluzione per prescrizione di quei poliziotti che a Genova si sono
resi responsabili di lesioni gravi contro i manifestanti. Una formula
ipocrita e riduttiva utilizzata in quanto l’ordinamento italiano non ha
ancora recepito il reato di tortura che altrimenti avrebbe impedito quella
prescrizione. Certo, anche gli agenti di polizia 11 anni dopo possono
essere cambiati: ma tra l’impunità totale per quei rappresentanti delle
forze dell’ordine che hanno seviziato degli esseri umani senza scontare un
solo giorno in prigione e la condanna a 14 anni di carcere per chi ha
rotto una vetrina, sottratto generi alimentari da un supermercato o tirato
pietre, era doveroso trovare un giusto mezzo, da un lato come dall’altro,
per evitare che questa sentenza stridesse con elementari principi di
equità presenti nella coscienza dell’opinione pubblica. Una coscienza
civica che è naturalmente capace di distinguere tra la devastazione di un
corpo e quella di un bancomat e sa bene che prima dell’idolatria
dell’ordine pubblico dovrebbero venire i diritti delle persone.
Alla cultura giuridica di questo Paese lo ha insegnato a metà Settecento
un pensatore come Cesare Beccaria, il quale ricordava che ogni pena per
essere giusta ha sempre il dovere di essere «pronta, necessaria, la minima
delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti e dettata
dalle leggi». Un ventaglio di principi sacrosanti per mantenere quella
«relazione tra l’oggetto e la sensazione» di cui parlava il grande
illuminista milanese che la sentenza della
Cassazione sembra avere smarrito.

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