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17.06.07

secolo xix Il poliziotto:«DeGennaro sapeva tutto sulle torture»

Secolo XIX

Il poliziotto:«DeGennaro sapeva tutto sulle torture»

GENOVA. Sei uomini, addestrati a Napoli contro la camorra, divennero i
“vendicatori� che torturarono i br. «I vertici della polizia sapevano»,
ribadisce SalvatoreGenova,
il poliziotto che liberò ilgenerale Dozier.

GENOVA. Era una struttura “parallela�, consolidata e attiva su due
livelli: gli operativi, pochi e scelti in base a precedenti esperienze
professionali; i capi, altissimi funzionari che non si sono mai sporcati
le mani e però sapevano, sapevanotutto. “I cinque dell’Ave Maria�, i
torturatori di cui Salvatore Genova l’investigatore che liberò il generale
James Lee Dozier rapito dalleBrigate Rosse ha rivelato l’esistenza ieri
sulle pagine del Secolo XIX, erano un gruppo che rappresentava, di fatto,
parte integrante ed essenziale in tutte le più delicate indagini sul
terrorismo all’iniziodegli anni ’80. Soprattutto il ministero dell’Interno
aveva ricevuto tre anni fa una dettagliata segnalazione dallo stesso
Genova,nella quale si chiedeva di fare finalmente luce. Un documento
«riservato» e pesantissimo, firmato da un investigatore (oggi è
dirigentedellaPolfer ligure,ndr) che ha visto dall’interno le violenze.
Nessuno ha mai risposto. «Attenzione insiste il superpoliziotto, che
vorrebbe fosse riaperto il processo che si occupò delle sevizie ai
brigatisti arrestati per il rapimento Dozier a non sottovalutare la
presenza di organismi occulti, ristretti e potenti in seno alla polizia di
Stato anche oggi». E oltre al parallelismo con l’irruzione alla scuola
Diaz, ci sono i pestaggi avvenuti nella caserma di Bolzaneto a corroborare
le perplessità : gli atti giudiziari hanno dimostrato più volte che i
soprusi sui dimostranti sono stati opera di drappelli molto ristretti e
“autonomi�. «Ecco ribadisce Genova il giorno dopo un terremoto che
potrebbe registrare nuovi colpi di scena è necessario che si estirpi una
volta per tutte la malapianta dei piccoli gruppi di potere, capaci di
avallare sistemi inaccettabili». Nella stessa settimana in cui uno dei
funzionari più coinvolti nel G8, Michelangelo Fournier, svela
l’accanimento “scientifico� avvenuto sui no global nelle ore successive al
vertice, un altro poliziotto spiega per filo e per segno come la tortura
era gestita dagli apparati dello Stato. “I cinque dell’AveMaria�, secondo
le indiscrezioni raccolte dal nostro giornale, erano una squadra composta
da non più di sei uomini,individuati per l’abitudine ad esercitare
pressione violenta su delinquenti comuni. «Dato che i risultati erano
considerati efficaci ammette Genova decisero di esportare quel metodo alle
inchieste antiterrorismo ». Il “laboratorio�, aggiunge, era
statoNapoli,inparticolare la squadra mobile della città campana costretta
a combattere quotidianamente una vera e propria guerra con la criminalitÃ
organizzata. Tant’è vero che la guida dei “Cinque�sarebbe stato proprio un
ex funzionario della Mobile partenopea.A quale livello era gestita
l’attività ?Chi sapeva della loro esistenza e come simuovevano? Genova non
si ferma: «I vertici dell’Ucigos ricevevano informazioni e aggiornamenti
diretti, il ministero pure». Il raggio d’azione era in qualche modo
illimitato: di certo, la squadretta era di stanza a Verona nei giorni che
precedettero la liberazione di Dozier «e per le loro mani passò gran parte
dei fiancheggiatori che contribuì alla cattura dei terroristi. Ma in altre
occasioni avevano operato a Roma o nel meridione.E ricevevano pressioni
costanti, utilizzando sostanzialmente due tre sistemi: simulavano la
fucilazione dei detenuti dopo averli accompagnati in luoghi isolati,
oppure somministravano abbondanti dosi di acqua e sale». Un po’ diversi i
fatti specifici di Padova, dove avvennero materialmente i pestaggi sui
sequestratori di Dozier. Lì entrarono,oltre ai “Cinquedell’Ave Maria� i
“vendicatori� (o giustizieri) della notte. «Il responsabile del Reparto
mobile (di stanzanella caserma delle torture, ndr) sapeva,ma lasciava
campo libero a un capitano, che a sua volta gestiva cinque poliziotti di
grado inferiore con i quali alla sera si chiudeva nelle stanze dei
prigionieri. Lo stesso ufficiale è stato poi protetto, inserito nei
servizi segreti e sempre tutelato dall’Amministrazione». Tutte le
informazioni, clamorose per il semplice fatto che provengono dall’interno
della polizia e non da un gruppo antagonista, potevano essere divulgate a
soprattutto approfondite tempo fa. Il documento di cui è entrato in
possesso il nostro giornale indirizzato testualmente «al Ministero
dell’Interno, Dipartimento della pubblica sicurezza» risale al 14 luglio
2004 e contempla un passaggio molto eloquente, accompagnato alla richiesta
di un’indagine amministrativa. «Già la sentenza di primo grado spiegava
Genova del vecchio processo di Padova aveva escluso responsabilità e
connessioni dello scrivente, allora semplice commissario della Digos
incaricato di indagini per la mancanza di strutture operative incardinate
presso l’Ucigos, con la cosiddetta “squadretta torturatori� denominata “I
cinque dell’Ave Maria�, considerata da quella magistratura di livello
ministeriale». Roma sapeva, che prima o dopo queste cose sarebbero
diventate pubbliche. MATTEOINDICE

«Violenze al G8 come negli anni del terrorismo»
la testimonianza
Parla Francesco Forleo, fondatore del Siulp ed ex questore di Milano:
«Ricordo soprusi che sicuramente avvennero»
17/06/2007
GENOVA. «Certo. I fatti del G8 hanno rappresentato un brutto passo
indietro. Una regressione al clima degli anni del terrorismo. A quegli
episodi oscuri che fummo noi, primi sindacalisti di polizia, a denunciare».
Francesco Forleo, fondatore del sindacato Siulp, ex questore di Milano,
due volte parlamentare del Pci, non si tira indietro, se gli si chiede di
commentare le denunce di Salvatore Genova.
Ricorda quel clima. Ricorda «alcuni soprusi che sicuramente avvennero». E
ricorda le prime battaglie dall'interno della polizia, nel nome di uno
slogan: la battaglia per la legalità di combatte con la legalità . «Un
esempio? Ricordo una perquisizione alla Casa dello Studente di Genova,
alla fine degli anni Settanta. Centinaia di ragazzi rimasero, per ore,
fino alla mattina, nudi, in mutande. Distribuimmo un volantino in cui
denunciammo: non è giusto questo accanimento, questo modo di procedere non
è corretto, non è rispettoso delle persone».
Aggiunge: «Pensavamo di incorrere nelle ire dei tanti poliziotti impegnati
contro il terrorismo. Invece ci capirono. E qualche giorno dopo, io e il
collega Francesco Minerva, andammo nelle case di via Asiago, che erano il
quartier generale della sinistra extraparlamentare. E uscimmo da lì con le
nostre gambe».
Strano destino, quello di Forleo. Raggiunto da un mandato di cattura nel
1998, quand'era il capo della polizia milanese, accusato di omicidio
volontario per una vicenda di tre anni prima, a Brindisi: la morte di un
contrabbandiere durante un insegumento. La vicenda non si è ancora
conclusa, è in appello. Così, quando gli si chiede cosa fa oggi, Forleo
risponde con amarezza: «L'imputato da nove anni».
Giunse, quell'arresto, proprio quando il nome di Forleo era finito nel
nòvero dei papabili per l'avvicendamendo di Fernando Masone al vertice
della polizia italiana. Si sa come finì: spiccò il volo Gianni De Gennaro,
nominato poi il primo giugno 2000. E questa strana successione di eventi
può, per suggestione, ricordare la battaglia che si sta giocando oggi per
la sucessione dello stesso De Gennaro.
In realtà oggi Forleo è impegnato in prima linea nell'emergenza rifiuti in
Campania. La tempistica di quell'arresto e la lunghezza del processo hanno
bloccato i suoi sogni di progressione. E anche questo, lo si può annotare,
è stato molto strano.
Non ha perso, Forleo, la sua incrollabile fiducia in una polizia "umana",
davvero al servizio dei cittadini. Ma non crede che al G8 ci sia stata una
manovra occulta di apparati "cattivi" e ingovernabili. Né che alla Diaz
siano tornate in azione le squadre della tortura. «Il G8 - racconta -
rappresenta ancora una ferita aperta. Un ritorno indietro nella marcia di
democratizzazione. Ma io credo che quel che è accaduto sia stato soltanto
il frutto di una enorme débâcle organizzativa. Troppa gente a comandare.
Il questore Francesco Colucci aveva troppa gente intorno che lo tirava per
la giacchetta, quando addirittura non gli si è sovrapposta. In queste
circostanze è ovvio che sia avvenuto il caos. In un'organizzazione
gerarchica, dev'essere chiara la catena di comando. E devono essere
evidenti le eventuali responsabilità ».
Perché, allora, è accaduto tutto questo nel luglio 2001? «Continuo a non
credere ad una precisa strategia. E' vero però che le forze dell'ordine
sono partite per Genova come se andassero al fronte. Sembravano soldati
che si muovevano per la guerra. Pressati, schiacciati da comunicazioni
assolutamente allarmanti». Insiste Forleo: «E' vero che era stato
distribuito il libriccino del ministero, che raccomandava moderazione e
serenità . Ma il clima reale era completamente diverso».
Un clima di mobilitazione...
«Certo. I reparti partivano già aggressivi. Non si può però tacere che
qualche parte di resposabilità l'abbia avuta anche il movimento no global,
o, almeno, certe sue parti. Quelle continue dichiarazioni nei giorni
precedenti hanno esasperato gli animi.
La "dichiarazione di guerra", i vari "attaccheremo", "sfonderemo".
Insomma, c'è stato uno spaventoso conrtocircuito in cui, io credo, la
principale responsabilità delle forze dell'ordine sia stata quella di non
aver saputo "comunicare" al loro interno». E oggi? Se la sente di
sostenere questo strano parallelismo tra l'epoca brigatista e il G8? «No,
non me la sento. Anche se il G8 ha segnato un bruttissimo episodio di
regressione, non è paragonabile ai tempi della"vecchia" polizia. E dopo il
luglio di Genova, certe cose non si sono più ripetute».
Marco Menduni

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