15.06.07
secolo xix «Il bene della polizia? Isolare i violenti della Diaz»
Secolo xix
«Il bene della polizia? Isolare i violenti della Diaz»
l'intervista
Parla Fournier, il funzionario che ha rotto il muro dell'omertà sui
colleghi
dalla prima pagina
Hanno definito il suo come un "esame di coscienza durato sei anni"...
«Si può dire così. Ho riflettuto. Ho raccontato tutto al mio avvocato
Silvio Romanelli. Lui mi ha confortato: Michelangelo, davanti ai giudici
deve dire tutta la verità. E l'ho fatto».
Una verità che ha fatto scalpore.
«Sono molto affaticato e ancora scosso. Non mi aspettavo questo clamore.
Alcune cose le avevo già dette negli interrogatori. L'unica differenza è
che avevo raccontato di essere arrivato a cose fatte, mentre invece le ho
viste».
Non è differenza da poco.
«E' vero. Ho fatto quel che ritenevo giusto fare. Ma chi mi ha definito
"poliziotto pentito" mi fa un torto».
Torniamo ai giorni del G8.
«Faticosissimi, interminabili».
Che cosa accadde, e soprattutto perché, quella sera?
«Il perché non l'ho mai capito nemmeno io. E' misterioso. Noi eravamo già
pronti per tornare a Roma.Il giorno dopo Bush sarebbe stato in visita
nella Capitale e si temeva una coda delle proteste. Avevamo già cenato
alla Fiera del Mare e preparato gli zaini».
Invece?
«Invece ci dissero di prepararci subito, che c'era un'operazione da fare.
Un'emergenza. In pochi minuti, il tempo tecnico di prepararci, ci hanno
fatto salire sui mezzi e portati lì».
Lei ha sostenuto che non sono stati i suoi uomini a picchiare.
«No, ce n'erano quattro, ma con il cinturone bianco, non il nostro che era
nero. Poi c'erano due in borghese, uno con la pettorina "polizia"».
E' sicuro che non fossero dei suoi?
«Sicurissimo, avrebbero sentito i miei ordini dall'interfono nel casco.
Invece me lo sono dovuto togliere, per poter gridare».
Lei oggi è ancora a Roma.
«Sì, dov'ero. Sempre al primo reparto mobile. Il "settimo nucleo", quello
di cui facevo parte ed entrato in azione al G8, non c'è più».
Sciolto dopo quei giorni? Ci racconti qualcosa di più di questa squadra.
«Era nata sperimentalmente come nucleo antisommossa. Era stato creato
apposta in vista del G8. Dopo quell'esperienza, la sperimentazione venne
ritenuta conclusa».
Per quel che accadde?
«Io credo che il nostro nucleo abbia lavorato bene. Il problema è che in
mezzo ai nostri uomini ce n'erano mischiati altri, quella sera, e non si
capisce chi fossero. Il cinturone bianco distingue tutti gli uomini della
polizia. Io non potrei garantire che i miei non hanno dato qualche colpo,
incontrando resistenza. Ma un simile massacro no, non lo avrebbero mai
fatto. Anche perché la nostra tecnica era diversa».
Cioè? Cosa intende?
«In caso di irruzione in un edificio, la regola è"conquistare" subito
l'ultimo piano, dal quale potrebbero provenire pericoli. Poi, via via, si
"bonificano" quelli inferiori. E in nessun caso ci si ferma a infierire su
chi non può più fare resistenza».
Però l'interrogativo dal quale non si può prescindere è sempre lo stesso:
perché?
«Una cosa la posso confermare: il caso Genova è stato un caso peculiare.
Né prima né dopo sono successi episodi di tale gravità. Lo ammetto:
l'ordine pubblico sulla strada non è una passeggiata, a volte può capitare
che qualcuno esageri nella concitazione, in momenti particolarmente
convulsi. Ma un'operazione così, in un edificio, con gesti di tale assurda
gravità, beh, non ha uguale. Per fortuna».
Cos'ha pensato della "sua" polizia in questi anni?
«Io ho sempre avuto stima, ammirazione e fiducia nel corpo in cui lavoro.
Sono stati alcuni poliziotti a comportarsi in maniera inaccettabile. No,
non mi sono per nulla disamorato. L'esatto contrario. Chi devia non
coinvolge l'istituzione nel suo complesso».
Però fa male.
«Sì, quelle immagini mi fanno male, ogni volta che ripercorro con i
ricordi quei momenti... Ero davvero convinto che quella ragazza stesse
morendo, che fosse morta. Oddio, che cosa abbiamo fatto! Questa è
l'esclamazione che mi risuonava in testa. Pensavo al caos che sarebbe
esploso. Ma pensavo soprattutto a lei, a chiamare i soccorsi, a capire che
cosa potevo fare per salvarla. E' arrivata un'altra ragazza, con una
cassetta da medicazioni, ha detto: sono un'infermiera, ti posso aiutare?
Le ho detto: sì, sì, ti prego, aiutami».
E poi?
«E poi mi affannavo e continuavo a scusarmi con lei, con l'infermiera, per
quello che i miei colleghi avevano fatto».
E vero che, uscendo dalla Diaz, disse "con questi qui non ci voglio
lavorare mai più"?
«Sì, assolutamente vero».
Ha mai pensato di andarsene?
«No. Io ho fiducia in quella che lei chiama la "mia" polizia. Ho taciuto e
ho fatto male, ma vedevo che eravamo sotto attacco di tutti, temevo di
creare ancora più risentimento nei nostri confronti. Poi, dopo una lunga
elaborazione interiore, l'ho capito: il bene della polizia si fa isolando
chi si è comportato così».
marco menduni
15/06/2007
«La Diaz è una ferita che fa male»
il vicequestore fournier al secolo xix
«Quella notte ho avuto quasi una colluttazione con degli agenti. Poi hanno
capito che ero un loro superiore e sono fuggiti»
15/06/2007
marco menduni
Genova. «Che cosa è accaduto davvero, quella sera al G8, rimane anche per
me un grande mistero. Perché alcuni agenti della "mia" polizia si siano
comportati in maniera così inqualificabile non lo so, ma è un ricordo che
mi ferisce». Il giorno dopo le rivelazioni in aula sul blitz-massacro alla
scuola Diaz del luglio 2001 («sembrava una macelleria messicana», «ho
soccorso una ragazza su cui i miei colleghi infierivano, credevo stesse
morendo») il vicequestore Michelangelo Fournier, ancora oggi al reparto
mobile di Roma, nella stessa posizione di quei giorni terribili, non
stacca la spina. Racconta nuovi particolari al Secolo XIX. Però ammette:
«Per fortuna è cambiato tutto, da allora».
Era in piazza a Roma, Fournier, a comandare i suoi uomini, anche sabato
scorso, durante il corteo no global contro la visita di Bush, quando sono
esplosi scontri violenti con anarchici e autonomi. «Avete visto tutti come
abbiamo gestito una situazione potenzialmente molto pericolosa». Della
notte della Diaz ricorda altri momenti difficili: «Non ho soltanto gridato
"basta, basta" a quegli agenti che continuavano a infierire sulle ragazze
a terra. Prima l'ho ripetuto a voce ancora più alta, poi li ho allontanati
a spintoni. C'è stata quasi una colluttazione. Poi hanno capito che ero un
loro superiore e sono scappati». Ma c'è un altro ricordo che gli fa male:
«C'era un agente, con il volto coperto dal casco, che ha messo le mani sui
genitali e poi ha cominciato a muovere il bacino, come fosse un atto
sessuale. Era chiaramente un gesto di scherno verso i feriti e le ferite.
In un primo momento, quando non avevo ancora afferrato la gravità della
situazione, quel gesto così irridente mi ha fatto ancora più male delle
violenze che avevo visto. Poi, sono corso a soccorrere la ragazza nella
pozza di sangue e la mia attenzione è stata attirata solo da
quell'esigenza: cercare di salvarle la vita».