10.11.05
Manifesto: il racconto di Lena Z.
Dal Manifesto
G8, al processo per la Diaz il racconto di Lena Z. La testimonianza
della giovane tedesca la cui foto con il volto coperto di sangue fece il
giro del mondo. «Mi hanno bastonata e presa a calci, si divertivano a
sentire i miei gemiti». Per lei costole fratturate e una riduzione della
capacità polmonare del 30%.
Racconta la fuga disperata al quarto piano, l'ultimo piano della scuola
Diaz, «per creare il maggiore spazio possibile tra noi e la polizia».
Ricorda di aver pensato a scappare dalle impalcature «ma rinunciammo -
dice - perché temevamo che ci buttassero giù». Era in preda al panico
mentre quelli sfondavano la porta. Quindi trovò un nascondiglio «in un
piccolo locale vicino all'ascensore, una dispensa». Lei e il suo ragazzo
decisero di presentarsi con le braccia alzate se la polizia li avesse
trovati. Purtroppo non è bastato. Lena Z. ha 28 anni e ne aveva 24 al
G8, quando è tornata a casa ad Amburgo con le costole fratturate e
lesioni che comportano tuttora una riduzione della capacità polmonare
del 30 per cento. Si occupa di botanica. Anche volendo non farebbe paura
a nessuno, non certo a un poliziotto in assetto da guerra. E' più esile
di quanto non sembri nella foto in barella all'uscita dalla Diaz, con il
volto coperto di sangue, che fece il giro del mondo. E ieri è stata la
prima delle 93 vittime della Diaz a testimoniare davanti al tribunale di
Genova che sta processando i 29 dirigenti e funzionari della polizia
accusati a vario titolo di falso, calunnia e lesioni per l'assalto alla
Diaz e le prove fasulle (le due famose bottiglie molotov). «Nella
dispensa - ha raccontato la giovane tedesca rispondendo al pm Enrico
Zucca - siamo rimasti pochissimo, poi abbiamo sentito passi pesanti, di
stivali, e altri rumori come se la polizia stesse picchiando con i
bastoni sul muro. Sono arrivati e hanno aperto la porta. Il mio ragazzo
è stato trascinato fuori subito, lo hanno circondato e hanno iniziato a
colpirlo con il bastone. Quanti erano? Dieci-quindici... almeno dieci».
C'è una contestazione dell'avvocato Porciani, uomo della destra milanese
più estrema che c'è e legale dei capisquadra della celere romana: «Ha
detto in ogni caso dieci, non almeno», sostiene l'avvocato. Il
presidente Barone: «Se permette mi fido dell'interprete». Ma poco
importa. Quel ragazzo fu massacrato da delinquenti in divisa, in
sovrannumero e a volto coperto, non identificati e non più identificabili.
«Io - ha continuato Lena tenendo a bada il dolore dei ricordi e la
tensione - ero rimasta lì, nella dispensa. Mi hanno tirata fuori per i
capelli, credo di essere caduta quasi subito. Ero sdraiata e mi
colpivano con i calci nella schiena e sul fianco con i bastoni. Ho
sentito le mie costole che si fratturavano. Un poliziotto mi ha
picchiato col ginocchio tra le gambe. Loro continuavano a picchiarmi e
io sono scivolata di nuovo a terra. Avevo la sensazione che si stessero
divertendo - ha esitato Lena - specie sentendo i rumori che facevo
quando mi colpivano sullo sterno». «I suoi gemiti?», chiede il pm. «Sì,
le mie grida, il mio respiro. Così ho deciso di non gridare più per non
invogliarli a colpire ancora». Parole pesanti, pesantissime. Che però
non hanno interrotto i feroci sghignazzi di alcuni degli avvocati dei
superpoliziotti (non tutti, per carità, ma non facciamo nomi).
«Ero sdraiata contro il muro - ha proseguito la testimone/parte civile -
Mi hanno spinta a calci verso le scale e mi hanno buttata giù, uno mi
teneva per i capelli, avevo la testa all'altezza della sua anca e le
gambe pendevano indietro. E da dietro altri poliziotti mi picchiavano
ancora». Lena ricorda «una polvere bianca che bruciava sulle ferite,
forse lacrimogeno». «Al secondo piano - prosegue - mi hanno gettata su
altre due persone già a terra. Non si sono mossi. Ho chiesto loro in
inglese se erano vivi o morti. Non mi hanno risposto. Lì mi sono accorta
del sangue che scorreva sulla mia faccia, non riuscivo più a muovere il
braccio destro. La polizia è passata più volte accanto a me e ognuno si
fermava a sputarmi in faccia, alzandosi la visiera e togliendosi il
fazzoletto rosso. Poi - altro particolare inquietante - hanno cercato di
mettermi in un sacco di plastica nero, credo non volessero far vedere
com'eravamo conciati». Alcuni difensori si sono opposti: «E' una
valutazione della teste», hanno detto. Forse era un telo portato dai
barellieri delle ambulanze, comunque non è decisivo. Il resto è
chiarissimo e sarebbe bello se qualcuno trasmettesse in diretta questo
processo, altro che "Un giorno in pretura". Qui infatti si misura la
distanza tra la polizia reale e quella «democratica» e «di sicura
affidabilità» di cui straparlano il ministro dell'interno Giuseppe
Pisanu e i suoi aspiranti successori di centrosinistra. E misurarla è
indispensabile se si vogliono rafforzare i poliziotti onesti e
democratici, che per fortuna non mancano.
«Non mettiamo in dubbio che le cose siano andate così», questo
l'esordio, significativo, del controesame dell'avvocato Romanelli che
difende «Canterini and company» (parole sue), ovvero l'ex comandante
della celere romana e i suoi capisquadra. Lena ha superato
brillantemente i tentativi di trasformarla da vittima in imputata. «Lei
e il suo ragazzo eravate state fermati nel pomeriggio, perché? Con chi
era a Genova?», chiedeva Romanelli. «Ha detto di essere andata alla Diaz
perché era un luogo sicuro per dormire, sicuro da cosa? Dai malviventi?
Dai black bloc? Dalla polizia?». Ma lei risponde, schiva, chiarisce. Un
buco nell'acqua dopo l'altro. «E' la vecchia tecnica dei processi per
stupro», commenta un avvocato di parte civile che ha memoria lunga.
Sui manganelli ha detto «credo che fossero di gomma». Per la procura non
era la risposta migliore perché i Canterini boys avevano i micidiali
tonfa metallici, ben più duri della gomma, sperimentati al G8 e poi
ritirati dal Viminale (i carabinieri ne usano una versione più leggera).
Ma poi, quando Romanelli e Porciani hanno insistito sulle divise dei
picchiatori, Lena ha indicato senza esitazione la divisa del settimo
nucleo, diversa dalle altre per la cinta nera anziché bianca. «Avevano
la cinta scura», ha detto, distinguendola da quella bianca dei
poliziotti che la piantonarono successivamente in ospedale.