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22.07.08

il manifesto Più delle molotov

Più delle molotov
Ida Dominijanni
«I fatti addebitati minacciano la democrazia più delle molotov lanciate durante i cortei di quei giorni». Posso sbagliarmi, ma a mia memoria è la prima volta che nell'aula di un tribunale si dice a chiare lettere, nella requisitoria di un pubblico ministero, che certi atti eversivi delle forze dell'ordine sono più pericolosi per l'assetto democratico dei gesti «sovversivi» di un movimento di contestazione. «I fatti addebitati» sono quelli perpetrati dagli agenti di polizia durante il massacro alla scuola Diaz di Genova la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001. Non c'è bisogno di dire, dopo l'ignobile sentenza di una settimana fa sulle torture nella caserma di Bolzaneto, che nulla, ma proprio nulla ci fa sperare in una meno ignobile sentenza sulla carneficina della Diaz. Ma quelle parole della requisitoria restano, consegnate a una memoria che sta a noi, più che alle sentenze, tenere viva.
Ci piacerebbe averle sentite dire, o almeno riprendere con vigore, da una qualche forza politica, o da uno solo di quei politici che un giorno sì e l'altro pure, a sinistra e a destra e al centro, disquisiscono di giustizia avendo in testa soltanto le immunità castali da una parte e la lotta alla microdelinquenza dall'altra. Ma la politica, non da oggi, su Genova tace, e anche quando ha parlato non ha mai capito, e quando ha capito ha voluto archiviare, il valore paradigmatico che quei due scempi della Diaz e di Bolzaneto avevano e hanno per le sorti del nostro stato di diritto. Forza bruta contro legalità. Eccezione contro regola. Sospensione dei diritti fondamentali in uno spazio affrancato da ogni garanzia e ogni convenzione. A Genova non fu questione di un po' d'eccesso nella repressione di un movimento. A Genova fu sospeso lo stato di diritto, anzi, fu sperimentato che sospendere lo stato di diritto è possibile, senza che il potere politico sia chiamato a risponderne e senza che ne paghi alcuna conseguenza. Immunità per tutte le alte cariche dello Stato, conquistata sul campo molto prima che in parlamento. Qui in Italia, un anno prima che il paradigma del campo, con annessa sospensione dei tribunali ordinari e istituzione di quelli speciali agli ordini dell'esecutivo, venisse glorificato in quel di Guantanamo.
Sono cose che abbiamo scritto più d'una volta, ma che non ci stancheremo di scrivere e di riscrivere ancora. Non solo perché quello sfregio allo stato di diritto resti lì, esposto alla coscienza pubblica, e non venga cancellato dai colpi di spugna e dai mucchietti di sabbia. Ma perché c'è qualcosa, nel regime della visibilità politica e nel regime politico della visibilità, che sistematicamente lavora a depistare l'attenzione e a distrarre la memoria. Di seduta in seduta parlamentare, di tg in tg, di prima pagina in prima pagina, la soap italiana gira e rigira su se stessa con poche variazioni sul tema, ed eccoci qua di nuovo alle prese, esattamente come ai tempi di Genova, con le vendette di Berlusconi contro i giudici, con i gesti trash di Bossi contro il tricolore, nonché con i deboli argomenti dell'opposizione contro Bossi e contro Berlusconi. E' un teatro delle marionette che sistematicamente manda dietro le quinte e occulta tutto ciò che nel male e nel bene non fa parte della recita o la eccede e la sovrasta. Il massacro della Diaz e le torture di Bolzaneto sovrastarono, sette anni fa, la recita politico-mediatica sul G8 di Berlusconi e Fini - pur essendone, s'intende, autorizzati o almeno legittimati -, rivelando la sostanza della deriva di decostituzionalizzazione che la nostra democrazia aveva preso. Per questo segnale sostanziale e imprescindibile che mandavano bisognava velocemente derubricarli o rimuoverli; e per questa stessa ragione bisogna invece tenerli vivi nella memoria collettiva.
«Abbiamo memorie di farfalle ormai, altro che elefanti», ha scritto pochi giorni fa sul «manifesto» Roberto Ferrucci - l'autore di «Cosa cambia», uno dei libri che hanno raccontato Genova - , incerto se abbandonarsi al disincanto nei confronti di una politica in cui nulla cambia o affidarsi alla scrittura per mettere almeno a disposizione di altri l'indignazione. E concludendo a favore della seconda ipotesi, perché «le parole dei libri tengono vivo il sentimento dei fatti che raccontano, e rimangono per sempre». Più forti delle sentenze vili e finanche dei diritti negati.
Perfino a Guantanamo, al grado zero della sopravvivenza, ai bordi dello statuto dell'umano, sono nate delle poesie: scritte sulla carta, o scolpite nelle scodelle, ovunque la vita potesse lasciare il suo segno. A futura memoria

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